Testimonianze da un centro di accoglienza per migranti
A dicembre ho scritto insieme a mia sorella Chiara un articolo sul tema migranti che potete trovare a questo link: Falsi miti sui migranti e come sfatarli.
Ho deciso di riprendere l’argomento perché ho trascorso tre giorni in un centro accoglienza che ospita migranti ed ho avuto la splendida occasione di convivere con loro in un clima di comunità e fratellanza e di ascoltare le storie di ciascuno.
La comunità in questione, gestita da don Giusto Della Valle, si trova a Rebbio, un quartiere della periferia di Como. Collaborando con numerose associazioni del territorio, educatori e volontari si adoperano quotidianamente per offrire vari servizi: appartamenti, scuola di italiano, pasti, distribuzione di alimentari.
L., un ragazzo di 18 anni, il più piccolo di una famiglia con sei figli, è partito dall’Egitto assieme ad un cugino quando di anni ne aveva 14. Prima di parlare del suo viaggio è un po’ irrequieto, sa che farà male ricordare.
Mi racconta che entrambi sono stati catturati dalla mafia libica mentre attraversavano il deserto del Sahara e che hanno trascorso un anno in carcere in Libia. “Mangiavamo meno di un panino al giorno” dice. I familiari di L. pensavano che fosse morto finché non hanno ricevuto una telefonata dalla galera, che chiedeva un riscatto di 5000 euro.
Usciti dal carcere, il cugino è tornato in Egitto, mentre L. è partito da solo a bordo di un barcone che però si è rotto ed è naufragato in Tunisia. Il ragazzo, tornato in Libia, è salito su un altro barcone fino a Lampedusa, dove è stato collocato in una comunità dalla quale è scappato perché le condizioni erano pessime.
Dopo aver vissuto in strada per due settimane è arrivato a Como in treno.
Sicuramente non possiamo immaginare cosa significhi vivere una situazione del genere, ma per farsi un’idea consiglio di guardare il film “Io capitano”, i cui protagonisti trascorrono una vicenda simile.
Adesso L. fa il muratore a Genova, dove vive durante la settimana, mentre nei finesettimana abita a Rebbio. Nel frattempo sta concludendo la terza media. Non sa scrivere in arabo, che è la sua lingua, ma sta imparando velocemente a farlo in italiano.
Gli chiedo se qui è felice e mi spiega: “Cinquanta e cinquanta. Qua ho i miei amici ma mi manca la mia famiglia, non li vedo da quattro anni. Li sento ogni giorno e gli spedisco i soldi che guadagno. Appena ne metto da parte abbastanza voglio andare a trovarli ma poi voglio tornare in Italia, sento che è il mio Paese, voglio vivere e morire in Italia”.
Quando gli domando perché è partito mi risponde che sperava che in Italia avrebbe avuto un futuro migliore, ma ora non sa cosa vuole fare nell’avvenire.
Sorprendentemente, nonostante sia quello che ha un trascorso più difficile, L. mi dice che se tornasse indietro rifarebbe il viaggio. Questo mi fa capire quanto dovevano essere difficili le condizioni in cui viveva in Egitto.
M., anche lui di 18 anni, ha alle spalle un viaggio simile a quello di L. È partito dall’Egitto da solo perché lì lavorava 12 ore al giorno senza essere pagato. La sua famiglia è composta da otto persone. Anche lui è stato fatto prigioniero dalla mafia libica. “Sono stato due mesi in un carcere in Libia. Eravamo in tanti, schiacciati in un magazzino. Non ho visto la luce del sole per due mesi”, racconta, e si capisce che riportare alla memoria questi eventi lo turba.
Successivamente ha preso un barcone diretto in Sicilia. La traversata del Mediterraneo è durata una settimana. “Dentro la barca erano morte tre persone. Quando siamo arrivati, l’ambulanza ha portato via i morti e poi si è occupata di noi.” M. è stato messo in una comunità in Sicilia ma dopo poco è scappato perché c’erano infiltrazioni di mafia. “Perché sei venuto proprio a Como?” gli chiedo, e lui mi risponde che gliel’ha consigliato un ragazzo che ha conosciuto in Sicilia.
Ora M. fa il muratore. Prima di partire, in italiano sapeva dire solo “fratello” e “ciao”, parole che lui e i suoi compagni mi hanno insegnato a pronunciare in arabo.
Racconta che qui sta bene perché ci sono i suoi amici, ma quando gli domando “Se potessi tornare indietro rifaresti il viaggio?” mi risponde con un deciso “No”.
Anche A., 20 anni, è scappato dall’Egitto, lui però senza dirlo ai suoi genitori. È arrivato in Grecia in barca e solo lì ha chiamato il padre per avvisarlo. Ha lavorato un po’ e poi ha camminato fino in Italia seguendo la rotta balcanica. “Ci ho messo un mese. Camminavo 12 ore al giorno.” Entrato in Italia da Udine, è stato assegnato ad una comunità ligure, poi è venuto a Como dal fratello che era già in Italia da un anno.
A. fa il pasticcere in un hotel, mestiere che faceva in Egitto col padre, e manda soldi alla famiglia. Orgoglioso mi mostra la fotografia della bellissima torta decorata che ha preparato per il compleanno di don Giusto. Il ragazzo lavora 8 mesi all’anno durante i quali vive assieme al fratello in un appartamento vicino all’albergo. Gli altri 4 mesi, da dicembre a marzo, non lavora perché è periodo di chiusura e quindi abita nella comunità di Rebbio. “Stare a Rebbio per me è una vacanza: ho i miei amici, mi riposo dal lavoro” racconta.
A. non sa se rifarebbe o meno il viaggio.
E., che viene dal Marocco e ha 18 anni, è stato accompagnato dal padre in aereo fino in Spagna, poi è arrivato in Italia da solo, in pullman. Ha conosciuto il sopracitato A. nella comunità ligure ed è venuto a Como insieme a lui.
Gli altri ragazzi lo prendono in giro affettuosamente perché ha fatto un viaggio corto e piuttosto semplice rispetto ai loro.
Adesso fa il parrucchiere, la stessa mansione di cui si occupava in Marocco. “Lavoro in un salone gestito da un altro marocchino, ma vorrei lavorare con gli italiani.” I suoi amici del centro accoglienza di Rebbio sfoggiano i capelli tagliati da lui.
In poco tempo E. ha imparato a parlare bene l’italiano e ora va a scuola.
R., coetaneo dei ragazzi già citati, è arrivato in aereo dalla Tunisia. “Hai fatto colazione in Tunisia e pranzo in Italia” gli rinfacciano gli altri, ridendo ma con un fondo di invidia.
Il diciassettenne egiziano S., barbiere, avrebbe voluto fermarsi in Francia da alcuni parenti ma non ha potuto a causa di alcune leggi francesi, perciò è arrivato in Italia.
Ascoltando i racconti dei ragazzi è evidente l’idealizzazione dell’Italia e dell’Europa che vige nelle loro zone d’origine, in cui i Paesi europei sono percepiti come fonte di prosperità e salvezza. Questo problema di disinformazione riguarda anche i rischi del viaggio, di cui i ragazzi non erano al corrente prima di partire. Quando chiedo “Sapevate che il viaggio sarebbe stato così difficile?” M. mi risponde che non ne avevano idea e L. mi racconta “Per sapere dove passare ho dato tanti soldi a un uomo al confine con la Libia, che mi ha detto cose sbagliate”.
Gli domando anche se hanno riscontrato razzismo da parte degli italiani e mi dicono “Al lavoro ci trattano bene, ma in altri posti ci sono razzisti, per esempio sui mezzi pubblici.”
Anche papà M., padre di una famiglia di dieci persone (lui, la moglie e otto figli di cui uno con disabilità) racconta la sua storia, con lo sguardo fiero, la posizione solenne e con indosso il cappello tradizionale. Siccome sa parlare solo la sua lingua (l’hausa), un altro uomo traduce in inglese.
Apprendo che sono scappati dalla Nigeria perché l’organizzazione terroristica jihadista Boko Haram “uccideva tutti quelli che incontrava, anche donne, bambini, animali, tutti”.
Sono arrivati in aereo tramite un corridoio umanitario, cioè un’alternativa sicura e legale ai viaggi della disperazione nata dalla collaborazione tra Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche, Tavola Valdese, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e Ministero dell’Interno.
Da due mesi questa famiglia ha un alloggio a Rebbio e i figli vanno a scuola.
Ho l’occasione di parlare anche con Y., un bambino di 12 anni che è venuto dal Mali con la sua famiglia – anche loro sono in 10 – in aereo (avion, come mi dice in francese) attraverso un altro corridoio umanitario.
Y. mi conferma l’impostazione patriarcale delle famiglie maliane e nigeriane, che avevo notato osservando che, nel centro, le donne cucinavano e pulivano mentre gli uomini si occupavano delle decisioni. Y. mi fa capire anche che nella sua cultura maschi e femmine stanno separati: infatti si scandalizzava quando vedeva me e i miei amici maschi sedere sul divano vicini. Il motivo per cui in questo articolo ho raccontato solo storie maschili è proprio che le donne e le ragazze, negli usi dei loro Paesi, non sono solite esporsi.
Credo che le storie che ho avuto modo di sentire e che ho qui riportato parlino da sole. Credo anche che chi che afferma che tutti i giovani stranieri non hanno voglia di lavorare e che vengono in Italia per fare i criminali dovrebbe fare un salto alla comunità di accoglienza di Rebbio.
Ribadisco, come detto nell’articolo precedente, che uno scambio culturale è sempre arricchente. In questo caso gli ospiti della comunità potrebbero prendere, dall’Italia, un’impostazione familiare e sociale meno patriarcale e dei ruoli di genere meno rigidi, mentre io personalmente voglio portarmi a casa il senso di fratellanza che si respirava nell’aria quando, prima di mangiare, pregavamo tutti assieme nonostante le religioni diverse, quando traducevamo in cinque lingue, quando una mamma si prendeva cura dei figli degli altri come fossero suoi.
E, come ha detto don Giusto al momento di salutarci, ricordo che quella dei migranti è anche una questione politica.
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