La realtà dietro alle sbarre

Quando pensiamo al carcere la prima immagine che ci viene in mente è quella tipica delle serie tv: “Mare fuori”, “Orange is the new black”, “Vis a vis” e “Prison break” ci hanno infatti sempre fornito un’immagine che poco rispecchia una ben più complessa realtà. I personaggi di queste serie tv, con le loro storie certamente avvincenti, hanno però contribuito a creare un immaginario collettivo del carcere fatto di pregiudizi e falsi stereotipi. Ma cosa vuol dire davvero vivere il carcere oggi?

Con la nostra classe quest’anno abbiamo affrontato in diversi modi questo tema, scoprendone sfaccettature che prima non immaginavamo nemmeno.

L’esperienza che più di tutte ci ha segnato è stata la possibilità di entrare in prima persona nella Casa Circondariale di Bergamo, nella quale abbiamo svolto un laboratorio di scrittura creativa insieme alle persone detenute. Per entrare nella struttura siamo stati sottoposti a vari controlli che ci hanno un po’ intimoriti. L’atmosfera era tesa, ma subito dopo essere entrati nel teatro del penitenziario e aver visto i volti degli uomini di fronte a noi ci siamo inaspettatamente tranquillizzati; questo perché abbiamo capito che quelli non erano gli uomini in divisa a strisce e sguardo minaccioso che ci aspettavamo, ma persone esattamente come noi. Questa impressione è stata confermata soprattutto dopo aver svolto alcune attività con loro, grazie alle quali abbiamo potuto conoscerli prima di tutto come persone.

L’opportunità di vivere questa esperienza ha avuto origine durante il nostro precedente incontro con Adriana Lorenzi, la figura di riferimento del laboratorio di scrittura, nonché redattrice del giornale del carcere di Bergamo, intitolato “Spazio”. L’incontro con lei è stato molto prezioso perché abbiamo potuto dialogare sia con una figura che lavora all’interno del carcere, sia con Vitor, un ragazzo detenuto a cui è stato concesso, attraverso l’articolo 21 dell’Ordinamento Penitenziario, di uscire quotidianamente dal carcere per svolgere un’attività lavorativa o, per esempio, venire a trovarci a scuola.

Vitor non ci ha parlato del perché sia stato condannato al carcere, ma piuttosto dell’importanza che i laboratori di teatro e di scrittura hanno avuto su di lui e sulla sua consapevolezza del reato commesso: “Senza l’aiuto di Adriana e delle attività interne al carcere probabilmente sarei uscito da qui per ricommettere gli stessi errori…”. Con questa frase Vitor ha voluto sottolineare quanto queste opportunità siano state formative non solo in quanto detenuto ma anche, e soprattutto, nella sua crescita come persona.

Ecco a cosa il carcere dovrebbe servire: rieducare chi ci è detenuto, facendogli comprendere i propri errori col fine di diminuire drasticamente il tasso di recidività; non si può dire quindi che l’obiettivo del carcere sia stato raggiunto se una volta scontata la pena le persone ripercorrono gli stessi passi che le hanno portate a sbagliare. Purtroppo però questo è determinato anche dai pregiudizi che la società nutre verso gli ex-detenuti, spesso non permettendo a quest’ultimi di reinserirsi al suo interno.

In Italia sono in pochi ad avere una storia simile a quella di Vitor, poiché nella maggior parte dei casi il carcere ha come unico scopo quello punitivo, ed è per questo che il sistema carcerario necessita di una radicale riforma!

Emma Bertocchi, Sara Sozzi e Alessandro Vecchi (4 N)


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