Globalizzazione. Capita spesso di sentirla nominare, ma raramente si discute sul suo significato e sulle sue conseguenze.
Si tratta di un fenomeno in continuo sviluppo che fa riferimento al fatto che molti processi di produzione e di commercializzazione vengono ormai svolti su scala globale, con un forte livello di interconnessione tra economie e culture diverse. Prendiamo per esempio le grandi catene di fastfood: molte provengono dagli Stati Uniti ma hanno sede in diversi paesi del mondo.
Il fenomeno si è avviato a partire dagli ultimi anni del XX secolo ed in particolare in seguito alla fine della guerra fredda, con la caduta del muro di Berlino. Nel nuovo millennio si è intensificato molto a causa dell’avvento di internet, che ha connesso ogni parte del mondo, velocizzando il flusso di informazioni.
Per quanto tutto questo possa sembrare positivo, il progressivo sviluppo della globalizzazione ha prodotto anche risultati negativi. Esso ha infatti provocato un aumento del consumismo, con la conseguente necessità di metodi di produzione e distribuzione dei beni sempre più veloci ed efficienti.
Ciò ha portato allo sfruttamento di lavoratori sottopagati e spesso provenienti da paesi poveri, per ridurre i costi di produzione il più possibile e massimizzare i guadagni. Per non parlare dei danni che vengono arrecati all’ambiente!
Bisogna poi considerare che le aziende che sfruttano questo tipo di strategie spesso stabiliscono sedi in tutto il mondo, vendendo in tutti paesi gli stessi abiti, lo stesso cibo, gli stessi prodotti.
E se tutti comprano, mangiano e indossano le stesse cose, non diventa forse un pericolo per le culture?
La bellezza di viaggiare sta nella possibilità di osservare le tradizioni delle altre popolazioni, ascoltare e magari anche imparare qualche parola di una nuova lingua, assaggiare i cibi tipici della zona. Ma che bisogno c’è di fare tutto questo, se tutti vestono allo stesso modo e possono mangiare cibo americano, cinese, giapponese, anche rimanendo nel loro Paese?
E riguardo le lingue? Basta saper parlare inglese, francese o spagnolo, per garantire conversazioni, più spesso online che faccia a faccia, nelle quali tutti riescono a capire, almeno in parte, ciò che viene detto. E se proprio si è in difficoltà, c’è sempre il traduttore.
Considerando tutto questo diventa più facile notare che intere popolazioni stanno dimenticando o rifiutando la loro cultura per omologarsi ad uno stile di vita ben preciso, spesso per via di standard imposti dalla società.
Si tratta di qualcosa di cui non ci accorgiamo, un fenomeno di cui pochissimi parlano e che raramente viene riconosciuto, portando molti ad ignorarne l’esistenza.
Il rischio a cui si sta andando incontro, secondo l’opinione di molti studiosi, è che col tempo si arrivi ad un appiattimento delle culture minori, soprattutto quelle locali, che per via di diversi percorsi storici, ancora oggi, in Italia, ci consentono di scoprire dialetti, accenti e linguaggi diversi a distanza di pochi chilometri.
Proprio per queste ragioni, in Italia, negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di associazioni ed enti del terzo settore spesso interessati alla salvaguardia delle tradizioni locali e del patrimonio culturale.
La cosiddetta globalizzazione culturale potrebbe diventare un ottimo mezzo per arrivare ad ottenere finalmente una situazione di dialogo reciproco, accordo e pace tra diversi Paesi. Bisogna però considerare che essa comporta una perdita di cultura e di identità per gli individui e per le comunità. Inoltre, mentre la globalizzazione avanza, le guerre non sembrano terminare, e problemi come la povertà e il cambiamento climatico continuano ad essere sottovalutati.
Considerato tutto questo, possiamo davvero accettare che le cose vadano così?
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